SALE ha intervistato Josè del C.A.L.P (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali). Il collettivo è nato nel 2011, di ritorno dalla grande manifestazione di Roma del 15 ottobre dello stesso anno. Dopo quel momento i portuali hanno sentito l’esigenza di formare un collettivo interno al loro sindacato di allora, la CGIL, che fosse in grado di dialogare con altre realtà, non solo portuali, ma anche politiche. La lotta contro il traffico di armi in porto è culminata nel vittorioso sciopero del 2019. L’anno successivo rompono con la CGIL e passano al sindacato di base – e più conflittuale – USB, rilanciando la lotta ed esprimendo posizioni più radicali e nette contro il traffico di armi in porto.
Qual è il volume di armi che passa dal porto di Genova?
Questo è un dato praticamente impossibile da quantificare, perché una parte viaggia direttamente dentro ai container e quindi viene schermata. Molto spesso le armi vengono spacchettate, fatte passare come materiale militare generico e assemblate a destinazione. Quello che dai container si riesce a capire è se trasportano esplosivi. Il regolamento internazionale prevede la presenza di etichette identificative chiamate che connotano il tipo di merci pericolose trasportate. Per quando riguarda gli armamenti sul container sono presenti etichette I.M.O ESPLOSIVO 1, dove il numero 1 indica la classe più pericolosa.
Per quanto riguarda la merce non dentro ai container, la vediamo direttamente con i nostri occhi. Ad esempio sulle navi della compagnia Bahri, vediamo carri armati M1 Abrams, elicotteri Apache da combattimento e casse di ogive. Nell’ultimo periodo c’è stato un innalzamento degli spostamenti di armi dagli Stati Uniti alle zone arabo saudite, precisamente nel porto di Gedda. Noi crediamo che sia legato a un eventuale conflitto contro l’Iran.
Quali sono i terminal nel porto di Genova interessati al transito dei container più pericolosi e quali sono le misure di sicurezza messa in campo?
Essenzialmente sono due: il primo è il PSA, dove al suo interno è presente una zona chiamata D1 provvista di vasche di contenimento. A fianco al D1 opera il Corpo Nazionale Guardiafuochi di Santa Barbara che, assieme ai chimici, effettua più volte al giorno vari controlli dell’area. PSA è dotato anche di un bunker per le lavorazioni di emergenza. L’altro centro è dal terminal Spinelli, che ha l’autorizzazione ma non ha le vasche di contenimento, però ha una sezione di Guardiafuochi più attiva rispetto a quella presente al PSA.
Quello che invece succede al terminal GMT, che è dove attracca la compagnia Bahri, è che non ci sono le autorizzazioni per stoccare i container esplosivi che, infatti, non vengono sbarcati.
Il terminal GMT è a circa 300/400 metri dalle case di Sampierdarena e il rischio è che possa accadere qualcosa durante le operazioni in banchina. Anche una piccola scintilla prodotta da un ferro caduto potrebbe innescare una reazione a catena. A Beirut era fertilizzante, qua merce fatta perché essere distruttiva. Come CALP denunciamo questo pericolo che non è solo dei lavoratori ma della città.
Oltre al problema etico, esiste però anche un problema legale…
La legge 185 del 1990, incardinata sull’articolo 11 della Costituzione, afferma che sul suolo italiano è vietato il transito e la spedizione di armamenti diretti verso stati che usano come risoluzione finale dei conflitti la guerra.
Tramite lo studio legale dell’avv. Danilo Andrea Conte di Firenze abbiamo depositati esposti alla prefettura, all’autorità portuale e alla capitaneria di porto. Nella scorsa legislatura, tramite tre parlamentari di Manifesta2, abbiamo ottenuto un’interrogazione parlamentare sul rispetto di questa legge. La prefettura e il sottosegretario al Ministero degli Esteri hanno spiegato che, finché la nave non scarica merce sul suolo italiano, non c’è violazione. Non siamo d’accordo, le leggi della navigazione dicono che più si avvicina una nave alle coste di un paese, più la responsabilità giuridica è di quel paese.
A seguito delle vostre lotte contro il commercio di armi in porto, c’è stata una forte risposta repressiva da parte della magistratura. Al momento abbiamo visto che le uniche azioni giuridiche sono nei vostri confronti. Ci puoi raccontare a che punto siamo?
Ci hanno accusato di associazione a delinquere ma è tutto fermo perché siamo ancora nella fase investigativa. Se entro 6 mesi non c’è nulla di concreto e dimostrabile, tutto decade. Nella prima operazione di polizia hanno partecipato circa 70 poliziotti e la digos è entrata armata, nelle abitazioni di cinque di noi per fare perquisizioni, poi nulla. Crediamo che sia stata un’operazione per controllarci. In questi ultimi mesi alcuni di noi sono stati fermati a più riprese per controlli, con pedinamenti e perquisizioni.
Oltre alla Bahri, vi è capitato di accorgervi di altri carichi in altri modi?
Al porto di Bilbao abbiamo una serie di compagni di fiducia che ci segnalano anticipatamente, quando possibile, cosa c’è all’interno delle navi o quali sono le tratte. Quando capiamo che ci sono armi che vanno alla Siria del nord o in Arabia iniziamo a mobilitarci. L’obiettivo è una mobilitazione internazionale e l’intento è che non rimanga solamente in ambito militante: l’anello cardino sono i lavoratori. Quindi ci fa molto piacere che i portuali greci del Pireo e i portuali francesi stiano cominciando a ragionare su questo.
2 risposte a “Armi in porto”
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